Esce oggi la prima parte di un lungo articolo su Elisabeth, romanzo di Paolo Sortino, in libreria ormai da più di un anno ma che secondo noi presenta in maniera urgente una serie di interrogativi fondamentali per lo statuto stesso della scrittura romanzesca. A breve seguirà la seconda parte.
1. La morale
Esiste un limite morale che la scrittura non deve oltrepassare? Esiste una soglia della morale, ma si potrebbe dire del dolore, oltre la quale bisogna chiedere alla parola letteraria di non spingersi? Adorno affermò perentoriamente che dopo l’Olocausto non si sarebbe più potuto scrivere poesia: di fronte all’orrore e all’indicibile nessuna parola avrebbe potuto più pretendere di dare consolazione estetica o, peggio ancora, di pretendere un analogo apprezzamento. La storia di una ragazza che, appena diciottenne, viene reclusa dal padre dentro un bunker scavato sotto le fondamenta della propria casa, dove rimane per 24 anni, durante i quali cresce, si fa donna, partorisce i figli delle violenze a cui il padre la costringe, e arriva quasi a dimenticare l’esistenza del mondo di superficie: questa storia, salita alle ribalte della cronaca nera internazionale solo qualche anno fa, può essere ricostruita, manipolata, fatta propria dalla letteratura? È giusto che un giovane scrittore prenda questa vicenda a oggetto del proprio esordio e ne faccia un romanzo?
E inoltre, la letteratura deve porsi queste domande?
Il romanzo, si sa, è genere per natura onnivoro, non ammette limitazioni alla propria voracità affabulatoria, alla fame di contenuti; eppure secondo me, anche – e anzi oggi, soprattutto – in questo campo del letterario, il problema della morale è inaggirabile. Interrogarsi su cosa è giusto e cosa è sbagliato, su cosa è vero e cosa è falso dev’essere l’operazione primaria di chi decide di intraprendere la scrittura letteraria. Eppure, talvolta, capita che la risposta giusta a queste domande si trovi dalla parte meno sospettata. Di questo tenta di convincerci Paolo Sortino, che con Elisabeth (Einaudi, 2011) ha deciso di correre un grosso rischio, provando a sovvertire, attraverso le sole armi della scrittura, il rapporto ormai sclerotizzato ed emotivamente meccanizzato tra romanzo e cronaca. Il fatto all’origine del suo romanzo è quello tristemente noto di Elisabeth Fritzl, di Amstetten, Austria, che nel 1982 viene rinchiusa dal padre Josef nel bunker da lui costruito sotto la propria abitazione, da dove uscirà solo nel 2006, dopo 24 anni di violenze, stupri, aberranti umiliazioni e il parto di 7 bambini (uno dei quali non sopravvissuto). La premessa dell’autore però è chiara, e viene dichiarata nell’Avvertenza: la scelta dell’argomento, lungi dall’essere frutto di una cinica preferenza per il fascino che l’orrore sa creare in chi legge, è dettata dall’«esigenza di costruire intorno al drammatico fatto di cronaca dal quale ho preso ispirazione uno schema utile a raccontare esperienze universali». Eppure non basta. Resta il sospetto che si tratti dell’ennesimo libro che prova a fare successo cavalcando l’onda ormai troppo lunga della civiltà della cronaca nera, dell’orrore mediatizzato, della condanna scandalistica della violenza quotidiana. Quello che Clotilde Bertoni ha definito «il ricatto dell’argomento» (cfr. Letteratura e giornalismo, Carocci 2009), il ricorso allo stato di eccezione, al romanzesco e volgare che è nella vita di ogni giorno, è ormai all’ordine del giorno nella nostra letteratura contemporanea: difficile accettare senza riserve una tale dichiarazione d’intenti. A maggior ragione se il fatto in questione riguarda una persona ancora viva, responsabile – per quanto la violenza e il dolore l’abbiano piegata – della propria storia, di difendere e affermare autonomamente la propria dignità, di rivendicarne gli orrori. Il rischio è che, al di là delle migliori intenzioni, lo scrittore finisca per sottrarre anche solo una minima parte di verità a quella storia, che invece ha bisogno di essere creduta nella sua integralità; il rischio è anche che la ricostruzione letteraria, inevitabilmente soggettiva, arrivi a sovrapporsi all’immagine divulgata e mediatizzata della vicenda reale, costruendo un simbolo, che in quanto tale, unisce romanzesco e veritiero in una commistione che può suscitare uno scandalo ormai automatico, ma difficilmente una riflessione sull’uomo.
Questa è però la sfida che Sortino lancia alle potenzialità della Letteratura. «La presente opera non possiede alcun valore documentario»: se questa è l’altra metà dell’Avvertenza da cui prende le mosse il romanzo, è conseguente che chi narra, una voce fuori campo e capace di focalizzare il punto di vista di tutti i personaggi che compaiono, si attribuisca grande libertà di composizione e osservazione della vicenda. La storia è quella del «processo di smantellamento della coscienza di Elisabeth» (p. 30): tramite violenze e privazioni la ragazza viene sottoposta a un processo di «cancellazione di tutte le istruzioni che occorrono per fiutare il pericolo e azionare i dispositivi di difesa» (p. 66), fino al punto di immedesimarsi con il folle progetto del proprio carceriere, che è al tempo stesso padre e marito, padrone e confidente, protettore e protetto. Elisabeth odia l’unica persona dalla quale può sperare di avere una reciprocità che la salvi dalla pazzia e dalla solitudine. Di questa tragedia chi racconta ci mostra entrambi gli estremi: le convinzioni e i sentimenti che fondano il depravato delirio di onnipotenza di un uomo convinto di potersi fare creatore di un nuovo universo anti-umano, e l’alterazione della volontà e dell’affettività di una vittima che, per atroce contrappasso, arriva a provare il senso di colpa di chi si accorge di aver «partecipato alla distruzione della propria esistenza» (p. 59). Un’esistenza senza proporzioni, fuori da ogni scala di giudizio, e che in questo trova un’aberrante normalità.
2. Realtà e verità
Dietro la rinuncia a un qualsiasi valore documentario per la propria narrazione, che è quindi rinuncia alla verificabilità dei fatti realmente accaduti, quale pretesa avanza implicitamente il romanzo di Sortino? Se non può attingere alla verità dei dati di fatto, a quale forma di verità ambisce questo romanzo oscuro e bellissimo?
Di fronte all’incredulità del Capocomico e degli attori di compagnia, il Padre, il più consapevole e didascalico dei pirandelliani Sei personaggi in cerca d’autore, prova a far capire la differenza «ontologica» che corre appunto tra un attore e un personaggio, definendo la propria natura: «Ecco! Benissimo! A esseri vivi, più vivi di quelli che respirano e vestono panni! Meno reali, forse, ma più veri!» (Mondadori 1990, p. 35). Il discrimine passa proprio tra i due concetti che sono croce e delizia della critica letteraria: realtà e verità. Come usarli a proposito di un romanzo che s’incarica di rappresentare in forma propriamente «romanzesca» una vicenda tanto spietata quanto «dominata» dalla cronaca? Da che parte sta l’una e da che parte l’altra? La verità è una condizione di partenza, residente nella storia, che il racconto non può che trasfigurare e conservare a un grado minore? Come giudicare il grado di realtà di questa scrittura secondaria che si dichiara esente da qualsiasi pretesa documentaria? Di fronte al tentativo di uno degli attori della compagnia di interpretare il ruolo del Padre, quest’ultimo prova a spiegare l’irriducibile grado di approssimazione che quell’interpretazione conserverà nonostante ogni sforzo di verosimiglianza: «Eh, dico, la rappresentazione che farà – anche forzandosi col trucco a somigliarmi… – dico, con quella statura… difficilmente potrà essere una rappresentazione di me, com’io realmente sono. Sarà piuttosto… com’egli interpreterà che io sia, com’egli mi sentirà – se mi sentirà – e non com’io dentro di me mi sento. E mi pare che di questo, chi sia chiamato a giudicare di noi, dovrebbe tener conto» (p. 75). È di questa identica rivendicazione di realtà e verità che chi legge Elisabeth deve tener conto nel giudicare il racconto e i personaggi messi in scena da Paolo Sortino. È su questo livello che si deve collocare il giudizio. È solo attraverso quest’ottica che si può arrivare a comprendere il senso di trasfigurare un fatto realmente accaduto in «uno schema utile a raccontare esperienze universali». La storia raccontata nel libro è «altro» rispetto alla storia realmente accaduta: il legame tra le due è inscindibile, è evidente, ma non vincolante dal punto di vista della produzione di significato e verità.
Lo strumento con cui Sortino prova a compiere questo riscatto della verità dalle chiuse del «vero storico» e giornalistico è il lavoro sulla lingua. La trasfigurazione linguistica di questa vicenda convoca tutto il potere creativo della parola letteraria, di cui affiorano le responsabilità e i rischi. Il bunker rimette in discussione la cognizione stessa di realtà: la realtà deve essere ricreata sulla tara di questo nuovo e asfittico orizzonte. È quanto cerca di fare Josef dando corpo alla propria follia (una nuova genesi sub- o forse anti-umana); è lo sforzo che affronta Elisabeth nel momento in cui si trova a dover spiegare ai propri figli la storia e la realtà della vita umana fin dalle sue origini. La voce narrante doppia allora l’operazione che la ragazza compie di fronte a quelle anime inconsapevoli e la rivolge al lettore per mezzo di una tecnica di straniamento metaforizzante e a tratti barocco. «Non sapere esprimere quanto c’era di vero sulla vita non era un difetto perdonabile» (p. 135): la frase pensata dalla ragazza acquista un valore pregnante, proprio perché pronunciata da una voce che sta tentando di riscattare attraverso le parole quell’esperienza e quel dolore, al di là della loro realtà fattuale. Il racconto diventa arma conoscitiva, per provare a ricostruire, al di là dei vincoli di un realismo castrante perché tutto esteriore, un fatto che sia esempio di «un’esperienza universale». Chi ci racconta questa storia prova a farla propria.